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Gli Stati Uniti di Trump visti da un giovane lucano

“L’America era Atlantide, l’America era il cuore, era il destino” cantava nel 1978 Francesco Guccini ricordando come la sua immaginazione di giovane di provincia si sbizzarisse nel sentire nominare il grande Paese dall’altra parte dell’oceano.
Il nostro amico vietrese Francesco Montone, ora iscritto alla facoltà di giurisprudenza della Cattolica di Milano, l’America l’ha vista e vissuta durante il primo anno di presidenza di Donald Trump. Ci regala la sua testimonianza, con la quale chiudiamo questa serie di articoli con cui abbiamo voluto accompagnarvi verso questa fondamentale competizione elettorale. Arrivederci ai risultati, e buona notte elettorale!


Divided States of America. In questa espressione si coglie perfettamente il paradosso che sta caratterizzando l’America dell’ultimo decennio, ormai lacerata profondamente dalle divisioni interne che delineano i tratti di una società che, oggi, si rispecchia ben poco nell’aggettivo united apposto secoli addietro dai padri fondatori.

Che l’America stesse viaggiando in questa direzione non è certamente una novità dell’ultima campagna elettorale: già nelle presidenziali del 2008 Barack Obama si fece strada tra le nominees democratiche come colui che avrebbe finalmente unito sotto un’unica bandiera una nazione che, in preda al panico scatenato dalla crisi dei sub-prime, appariva debole e disorientata. La crisi economica fu superata egregiamente, quella sociale no. Anzi, il semplice fatto che nello Studio Ovale sedesse un afroamericano finì per diventare elemento di ulteriore divisione in una società ancora non totalmente, o quanto meno omogeneamente, guarita dalle ferite razziali. Non a caso Obama fu più volte costretto a delegare al suo vice Joe Biden progetti di riforma, come quello sul controllo delle armi poi fallito, che se personalmente inaugurati da un afroamericano avrebbero rischiato di alimentare ancor di più l’incendio. A completamento della grande opera arriva la vittoria dello spavaldo e controverso tycoon newyorkese nelle presidenziali del 2016 che certifica, sennonché legittima, una spaccatura ormai irreversibile nel tessuto sociale americano: da questa ultima tappa incomincia la mia esperienza negli Stati Uniti d’America di Donald Trump.

In Italia, se non addirittura in Europa, il susseguirsi degli eventi geopolitici è stato tale per cui o si nasce filoamericani oppure filorussi. Per chi, come me, predilige la prima soluzione, gli Stati Uniti d’America hanno da sempre rappresentano una meta a cui ambire, dimensione massima della meritocrazia e del cosmopolitismo. Non sarò certo io a buttare giù questo mito, l’America era ed è ancora la patria dei sognatori, e per capirlo mi è bastato poco. Tanto a scuola quanto nelle case, gli americani fanno un utilizzo incomprensibilmente ossessivo della parola “successful”, quasi fosse un metro di valutazione del singolo individuo, una sorta di spartiacque di una società divisa tra vincitori e perdenti. Il termine non ha niente a che fare con forme di vanità personale, come erroneamente pensai all’inizio. Infatti, con l’appellativo di “uomo di successo” loro proiettano l’individuo in una scala sociale, quantificano la sua ricchezza e da lì ne determinano l’apprezzamento che la collettività riconosce a costui. Non a caso, gli americani tendono a rendere pubblici i ricavi personali come elemento costitutivo della loro personalità. Inutile dire, però, che questo sistema produce una società frammentata in due, tale per cui la forza del vincente sarà sempre e solo qualificabile in rapporto alla debolezza dello sconfitto, e ciò si è particolarmente acutizzato con l’amministrazione Trump. È l’utile del più forte, un totale scontro sociale.

Questa concezione è stata ben ereditata dai discendenti bianchi degli immigrati continentali, con irlandesi ed italiani in testa. Ma se negli anni addietro questa ideologia del vincente finiva per tramutarsi in un incentivo alla crescita, oggi ha assunto un’eccezione conservativa ovvero è divenuto mezzo di protezione di uno status sociale ereditato. Da qui anche il rischio di fossilizzare la società intorno ai cosiddetti “privilegi bianchi” che Donald Trump sembra voler tutelare fermamente.

Insomma, l’America è diversa e divisa. La società statunitense è sempre stata frammentata in differenti tradizioni e culture, ma è innegabile che il processo d’integrazione abbia accusato un forte rallentamento. Gli afroamericani, i latinos e i nativi riscontrano percentuali preoccupanti di povertà rispetto ai bianchi, che a cospetto di qualche anno fa son sempre meno disposti alla tolleranza. La mia percezione è quella di una nazione sempre più incline a chiudersi nelle proprie convinzioni e posizioni, ormai riluttante verso ogni forma di dialogo moderato che possa riavviare il procedimento di unione di una società ormai innegabilmente frastagliata dalle divisioni. Ci sono due tendenze opposte e contrarie, una che, nell’intento di preservar il sistema capitalistico, continua ad affermare il principio dello “Stato minimo” e l’altra, che nella speranza di alleviare i tassi di povertà, professa un minimo di Stato sociale.

Ma l’America di oggi non è nelle condizioni di poter prendere una tale decisione, il dibattito politico è carente di qualità e competenza. La tendenza alla semplificazione e contestuale estremizzazione dei temi è sempre più preoccupante. I media statunitensi sono sempre più schierati, ormai la Fox News e la CNN sono divenute delle vere e proprie emittenti di partito, e ciò non è funzionale alla costruzione di un vero dibattito nazionale. Quella forte classe media costantemente e variabilmente pendente tra i due fronti sembra essersi irrimediabilmente divisa, e non più disposta a ragionare su temi moderati. Per finire, gli elettori repubblicani diventano sempre più conservatori e gli elettori democratici divengono sempre più liberali.

Gli Stati Uniti d’America di Trump sono una nazione che riesce a dividersi su tutto e tutti, carente di una guida capace di ripristinare l’ordine sociale tra le parti. Queste elezioni presidenziali saranno sicuramente fondamentali per la determinazione dell’identità di un’America smarrita e disorientata, ma sarebbe utopistico pensare che le divisioni interne possano essere risolte con un voto.

Francesco Montone