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Ha perso la città. Possiamo salvarci restando uniti, in Europa

L’ultimo numero di questo giornale è stato, se si può dire, pubblicato quasi un anno fa, quando i primi soli caldi facevano capolino sorridenti da queste colline. Ne sono successe di cose intanto, e oltre alle nostre iniziative extracartacee, come è normale che sia, la storia ha fatto il suo corso. Forse la filosofia vichiana ha trovato ancora una volta una conferma, trecento anni dopo essere sbocciata. Sembra di ritornare agli albori, all’età della pietra. America, Inghilterra e anche l’Italia hanno mosso passi verso lo sgretolamento di un duro lavoro fatto di compromessi, interessi comunitari e solidarietà. La pancia ha prevalso. Ha vinto la rete e il popolo degli insoddisfatti. “Ha perso la città, ha perso la comunità, abbiamo perso la voglia di aiutarci”. Parole di Niccolò Fabi che oggi riecheggiano forti come urla di una reale preoccupazione, non di un allarmismo insensato, ma che non sembrano essere ascoltate. La democrazia è per definizione tutti ma la sua deriva tende a chi urla più forte. A chi non tollera ma vuol essere tollerato. Spiego in una frase: il risultato di queste ultime elezioni ed il generale trend populista, a me, giovane cittadino europeo, non sembra confortante. Ed il rischio maggiore sarebbe vederci fuori dall’organismo che riesce a garantirci pace, stabilità e condivisione, l’UE. Un drammatico racconto distopico, altro che 1984, ma d’altronde, un’eventualità che potrebbe trasformarsi in realtà. La storia dell’Unione Europea ci racconta chiaramente non solo le ragioni, ma le necessità che hanno generato la sua nascita e la centralità della nostra nazione in questo progetto. Pensate un po’: il sogno più recente di un’ nione tra gli stati europei nacque durante l’epoca dei totalitarismi, un momento drammatico che ha spinto gli uomini dell’epoca a trovare una soluzione per superare un periodo corrosivo e far si che gli estremismi non potessero più vedere la luce. Non più nazionalismi, non più totalitarismi, non più, soprattutto, lotte fratricide. Un primo impulso venne da alcuni confinati italiani, Rossi, Spinelli e Colorni, che a Ventotene redassero un manifesto che, ancora attualissimo, fu una delle basi per la nascita dell’Unione. Chiedevano di “mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.” Ecco: l’Unione non è un fiume che condurrà alla dispersione delle identità nazionali, no. Anzi, valorizzarle è un fondamento, con la consapevolezza di condividere, o meglio di essere una parte di una grande, unica, cultura, che va al di là dei confini geografici del continente, e che condivide una grande storia, filosofia e arte. Essendo europei oltre che italiani e lucani dovremmo vederci attraversati da due sentimenti: uno nazionale e locale, ed uno internazionale. In una parola, “glocale”, un sentirsi a casa ovunque. Dopo la filosofia vennero gli atti: nacque la CECA e sei anni dopo, nel 1957, la CEE e l’Euratom. Queste ultime due videro la luce a Roma e dunque l’Italia ed evidentemente gli italiani costruirono con fiducia e volontà la nuova comunità. Ciò vuol dire che chi aveva toccato con la propria pelle il disastro delle guerre voleva impedire che ce ne fossero altre, voleva costruire un’economia, un futuro ed un’Italia migliore. Ed ora che facciamo? Rischiamo di disfare una tela tessuta dalle migliori mani. Ci contraddiciamo con il nostro passato da padri fondatori. Dunque, oltre a ragioni culturali e storiche delineanti un confine ideale che raccoglie un percorso condiviso nel tempo, esistono anche migliaia di motivi per cui credere, anzi, potenziare, l’Unione Europea. I dati economici parlano chiaro, supportati da numeri o semplicemente dalla logica: l’Euro, ad esempio, ha portato tutti i vantaggi che una moneta unica può offrire, sia al commercio che ai privati cittadini. Per citare altri casi: lo spazio Schengen ci garantisce la libera circolazione di persone in tutti gli stati membri, e con l’unione doganale anche di merci. Niente dazi di importazione tra le nazioni europee e controlli di sicurezza alle frontiere esterne. Di ragioni ne esistono ancora migliaia, ma resta una base, solida e vera per tutti i popoli indipendentemente dalla loro provenienza geografica, una condizione sufficiente all’esistenza dell’UE, che mai dovrebbe essere messa in discussione. Lo diceva Kant, il padre del liberalismo, colui che definì l’Illuminismo, i cui contributi vivono nell’Europa: “La solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un ‘essere o non essere’, una questione di vita o di morte.”

 

di Antonio Santopietro