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C’era una volta il Natale

“Natale è una festa  consumista e capitalista” è una frase ormai proverbiale e ripetuta talvolta pappagallescamente. Tuttavia chi la considerasse  meramente banale e priva di contenuto cadrebbe nell’errore di una stupida posizione intelletualistica. Il Natale lo festeggiano tutti, credenti o no. Leggevo che alcune città in Cina abbiano trovato a tal punto affascinante l’ atmosfera natalizia da aver iniziato ad ornare le strade, vestirsi da Babbo Natale e cantare le più o meno simpatiche canzoncine tipiche di quest’occasione. A Roma, lo dico senza temere di esagerare, il Natale comincia novembre. Le nostre famiglie iniziano a pensare cosa cucinare per i vari cenoni quando ancora non è stata celebrata l’ Immacolata. Ogni anno fanno ritorno fra le pagine dei nostri giornali le polemiche sul fatto che l’albero non appartiene alla nostra cultura o le vicissitudini di qualche mamma che si rivolta contro il preside che vieta di fare il presepe a scuola. Televisioni e radio pensano un palinsesto a tema e nelle sale approda l’immancabile Cinepanettone. Le pubbliche piazze e le manifestazioni politiche gridano a gran voce la centralità del Bambinello nella nostra “identità nazionale” senza curarsi se le successive affermazioni saranno coerenti con quanto proclamato. In tutto ciò le chiese sono, anche durante le solennità legate alla Natività di Gesù, sempre più vuote.

La predicazione di Cristo ha innegabilmente avuto un aspetto marcatamente sociale e politico; su questo credo che non ci sia dubbio alcuno. Elevare il Natale a simbolo della nostra cultura o pretendere di farlo potrebbe avere un senso, per quanto poco condivisibile, solo in una società che nella legiferazione e nel governo di sé stessa si muovesse sulla base dei messaggi cristiani, cosa che, allo stato dei fatti, non è. Ecco che torna il ruolo centrale dell’ortoprassi e del comportamento oltre l’affermazione della propria appartenenza religiosa. D’altro canto però non si può nemmeno ridurre questa ricorrenza al classico “a Natale siamo tutti più buoni” svuotandola del suo significato per farne solo vessillo della solidarietà e dell’altruismo. Se facessimo questo ridurremmo il cristianesimo ad un attivismo fra i tanti.

Che il Natale abbia una dimensione materiale non solo è un’ovvietà ma è perfino giusto, essendo prima di ogni cosa la memoria di un’incarnazione. Il Dio dei cristiani non è un’astrazione che silente osserva dall’alto i suoi fedeli ma un Dio che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare nelle strade degli uomini, in un momento storico e in una delimitata area del mondo. La nascita di Cristo si colloca in un precisato contesto politico ossia durante il Regno di Erode e l’impero di Cesare Augusto. “Il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”: dovremmo qui tradurre abitare con il tedesco wonhen che etimologicamente vuol dire (essere in) Dio facendosi uomo diventa quello che il grande pensatore Martin Heidegger chiama Dasein, cioè  un Esserci qui ed ora. “E venne ad abitare in mezzo a noi”, in quella modalità propria dell’esserci di ogni uomo che è il con-esserci. Allora la Natività di Gesù ha a che fare con la carne, con l’attualità del momento, con lo stare in compagna e l’essere nel mondo, ma non è di certo la celebrazione della mondanità da consumarsi attorno ad un tavolo.
Nei nostri discorsi comuni spesso diciamo di aspettare il natale per poterci ingozzare all’inverosimile. E’ questa ovviamente nella quasi totalità delle volte una battuta goliardica che però avrebbe fatto gioire e compiacere di sé Feuerbach, che pronunciò la celeberimma frase “L’uomo e ciò che mangia”. L’Uomo Gesù si era sottomesso alla fame, al freddo e aveva tutte le necessità materiali degli uomini ma non dimenticava di coltivare l’aspetto spirituale tenendo presente ciò che egli era non solo in quanto Dio, ma anche perché uomo orientato in qualche modo all’assoluto. Oggi la nostra società ha, nel migliore dei casi, dimenticato la dimensione spirituale o l’ha decisamente rifiutata per sostituirla, posta dinnanzi alla necessità costitutiva di questa dimensione, con una serie di surrogati più o meno appaganti. Il natale dovrebbe allora essere primariamente un momento di maggiore spiritualità e non rappresentare il pretesto per una festa come tante altre. Un Natale fatto solo di regali, lucine e cibo conferma che, come Feuerbach sosteneva, l’uomo è ciò che mangia e nient’altro che questo.

Il discorso sarebbe ancora molto lungo a rischierebbe di sfociare nel banale moralismo dal quale voglio stare ben alla larga. Prima di chiudere voglio però fare un invito a voi tutti miei compaesani e non . Da qualche anno a questa parte ho preso l’abitudine di leggere durante le feste “Canto di Natale” di Charles Dickens, libro per me di grande valore letterario e a titolo del tutto personale, essendomi stato regalato da un caro amico e compagno di studi al liceo, affettivo. E’ un libro semplice che parla alla semplicità di ognuno di noi che va ben oltre il “vogliamoci bene” spesso invocato come unico metro di comportamento. Il mio invito è ad acquistare e a leggere quest’opera e poi magari guardare anche il bellissimo addattamento cinematografico che la Disney ne fece qualche anno fa. E’ un gesto piccolo e discreto, ma non è forse stato piccolo e discreto anche il modo in cui Dio ha deciso di venire al mondo?

Aurelio Zuroli