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Cultura

Il fascino della decadenza (a Capodanno)

Quando si stacca l’ultimo foglio dal calendario, accompagnati da vezzose bollicine, ci si abbuffa di propositi ed aspettative, ripetendosi in noti cliché, (il migliore dei quali è augurarsi di poter augurare ancora buon anno).Si suole concettualizzare, per comodità intellettualistica, l’anno: un prodotto dell’astronomia, ma che nella vita civile diventa il contenitore dei giorni, il metro del nostro tempo. Sulla soglia della foce tra fiume del vecchio e mare del nuovo si confondono amarezza e gioia, per altro tempo aggiuntosi alla nostra personalissima storia, ma anche per un nuovo inizio.Il brillare dei fuochi di artificio, in un raptus di incontrollata e folle ebbrezza, si scioglie sulla vibrante folla umana, che guarda il cielo cercando di cogliere la sublimità dei giochi di luce, destinati a svanire, compiendosi in istantanee quasi impercettibili. Il colore sfonda le pareti delle case, le strade, i prati, il mare. Il sipario, poi, si chiude, d’un tratto, per la fine di un ennesimo tempo, per una pausa lunga 365 giorni. La scena si ripete, e così fino all’Apocalisse. Sotto l’imbattibile frenesia del tempo, la Natura continua a vivere nella sua universalità e assolutezza, ma non nella sua particolarità. Cosa resta delle vite umane, sulla Terra? Non la materia, che non vive più, ma l’immateriale, capace di resuscitare il suo eponimo. Per Foscolo l’unica arte eternatrice è la poesia, un patrimonio memorabile, inscalfibile dalla forza del tempo.Eppure ancora oggi, del resto, viviamo una ricchissima eredità artistica, specialmente nella nostra Italia. Cosa affascina, durante una passeggiata ai fori imperiali, oltre al valore squisitamente artistico dei ruderi? I segni del tempo. E’ qui che si fanno concreti, tastabili, lasciando intravedere strascichi di un trapassato alquanto remoto. La bellezza dell’appassito è sublime e rivelatrice: immensa ed incontrollabile, mostra la stessa potenza oscura e grandiosa che si abbatte anche contro gli osservatori. Le rovine agitano per la loro misera incapacità di resistere agli eventi naturali, la stessa dell’uomo, che empatizza così con i resti. John Ruskin, grande critico d’arte, ha speculato per gran parte sul senso del restauro, e conseguentemente del valore dell’oggetto d’arte consumato. La sua scuola rifiuta interventi radicali sul bene, spesso stravolgenti, preferendo lasciarlo sfiorire naturalmente, riconoscendogli infine la dignità della morte. L’opera d’arte vive così tre tempi: la progettazione, la funzione e la conservazione, che non è un momento infinito. Nell’ultima fase l’oggetto perde il senso per cui è stato eretto, e diventa mera educatività. L’architettura diventa, a questi livelli, vera e propria metafora di un popolo, oggettivato nelle tradizioni che, con il tempo, diventano logore ed inadeguate alle circostanze e necessitano di evolversi, ma assolutamente non di dimenticarsi del tutto. Una società che conserva soltanto ed è incapace di costruire, invece, rompe la catena della Storia popolare, rende le esistenze dei singoli fini solo a loro stesse e non al tutto, preferisce l’estetica al significato, il nulla ai valori, la fine di se stessa. Capodanno è l’occasione per riconoscere, nella nostra finitudine, l’infinità alla quale possiamo prendere parte, al di là dello champagne e dei fuochi d’artificio.

Antonio Santopietro