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Aldo Moro e quella politica che mette al centro la Persona

Il 16 marzo 1978 Aldo Moro veniva rapito dalle BR. Per quanto notissimo per la sua triste fine, ci piace ricordare con voi il suo pensiero al di là della tragedia

La mattina del 16 marzo 1978, 43 anni fa, Aldo Moro veniva rapito da un commando delle Brigate Rosse mentre si recava alla Camera che qualche ora dopo avrebbe concesso la fiducia al quarto governo Andreotti. Verrà ritrovato senza vita il 9 maggio successivo. A distanza di più di quattro decenni dalla sua scomparsa, il grande statista pugliese continua a far parlare di sé e a essere ammirato anche in un momento in cui le istituzioni sono avvertite lontane e incontrano sempre maggiori difficoltà ad ottenere la fiducia dei cittadini. In questo contesto Moro emerge quale esempio di come non si viva di politica, ma si viva per la politica.

Nato a Maglie nel 1916, dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di giurisprudenza presso l’università di Bari, divenendo presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana e stringendo amicizia con Gianbattista Montini, allora assistente spirituale dell’associazione e futuro papa Paolo VI. La formazione culturale e filosofica verso la quale Montini indirizzava i suoi allievi segnerà Moro per tutta la vita, fornendo al futuro leader democristiano il bagaglio di intuizioni fondamentali sulle quali egli costruirà il suo pensiero politico. La matrice filosofica di Moro è infatti inequivocabilmente il personalismo francese, che muove dalla filosofia neotomista e che è espressa nella sua forma più alta in Maritain.

Nel 1946 viene eletto all’assemblea costituente e diviene uno dei 75 componenti della Commissione redigente il testo, nel ’48 è parlamentare per la prima legislatura e sottosegretario agli esteri. Nel 1963 forma il primo dei suoi cinque governi, concependo e inaugurando l’esperienza di centrosinistra in Italia.

Fermo sostenitore dell’esigenza di coinvolgere tutte le forze politiche nella gestione del paese e di attuare il celeberrimo compromesso storico con il PCI, di cui fu con Belinguer il principale propugnatore. Moro rappresenta il più fulgido esempio di quella vocazione alla politica di cui Paolo VI parla nella Populorum Progressio, ossia di quella ispirazione della coscienza cristiana che come chiama alcuni all’intimo servizio di Dio chiama altri al servizio dello stato e dunque della comunità civile. Egli ha inteso la politica come una missione e come mistica laica. Fra Moro e gli altri c’è una differenza sostanziale: egli non è solo un ottimo politico o un grande statista, ma è un eroe e un martire. La sua grandezza corrisponde inevitabilmente con la sua tragedia. Se anche appurassimo con salda certezza l’autenticità delle intenzioni di Moro nel chiedere ai partiti e alla Chiesa di avviare le trattative per la sua liberazione, la sua latissima testimonianza resa fino all’effusione del sangue non perderebbe di valore.

E se la politica si dividerà sull’ipotesi dello scambio di prigionieri fra stato e brigatisti, fermo sarà il rifiuto di ogni tipo di compromesso da parte dell’amico e mentore Paolo VI. Montini farà infatti appello ai sequestratori richiedendo di liberare l’onorevole Moro «senza condizioni», rifiutando dunque di mercanteggiare ma appellandosi alla coscienza di quelli che chiama uomini: «lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova.» Chiamando i brigatisti «uomini», il pontefice intende condurli non tanto al tribunale di Dio quanto a quello della coscienza che dovrebbe imporre quale imperativo categorico di kantiana memoria la liberazione di Moro «in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità». Riteneva fosse indispensabile coinvolgere tutte le forze politiche e sociali nel governo della nazione, per ripetere la straordinaria esperienza della costituente che, dopo gli anni di dittatura fascista, rappresentava il trionfo della democrazia e della collaborazione fra culture diverse ma ugualmente e sinceramente volte alla realizzazione del bene comune. Comunisti compresi.

Il rapporto fra Moro e il partito comunista ha come sfondo la Guerra fredda, un periodo in cui era solo l’equilibrio del terrore a impedire lo scoppio di una guerra e la tensione era dunque all’ordine del giorno. Era anticomunista di un anticomunismo che definiva democratico, ossia che non si fondava sull’utilizzo della forza numerica ma si configurava in un continuo esercizio dialettico con l’avversario pur avendo sempre la consapevolezza dell’inconciliabilità delle due ideologie. Ci piace pensare a queste due culture politiche come ai personaggi del Piccolo Mondo di Giovannino Guareschi: don Camillo e il sindaco Peppone passano la giornata a litigare capeggiando le due opposte fazioni e mettendo i giovani del paese in guardia dalle insidie dell’ideologia dell’altro, ma quando insorge la necessità non attendono un attimo a collaborare. Trovavano il punto d’accordo sull’interesse dell’uomo. Aldo Moro ha avuto questa capacità, mettere al centro di tutto la Persona.