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Chi è Donald Trump? – #USA2020

Donald Trump nasce il 14 giugno 1946 a New York, quarto di cinque figli di una famiglia che le sue ha radici nel vecchio continente, avendo antenati tedeschi il padre e scozzesi la madre. Da ragazzo frequenta la New York Military Academy per studiare poi economia prima alla Fordham University e poi alla Wharton School of Finance and Commerce, dove si laurea. Ancora studente muove i primi passi nel mondo dell’imprenditoria all’interno dell’Elizabeth Trump & Son, azienda del padre di cui prenderà il controllo nel 1971 cambiandone il nome in The Trump Organization.

Da quel momento si espanderà nei più svariati ambiti come l’industria del divertimento, lo sport e l’intrattenimento destreggiandosi fra evitati fallimenti e costruendo un impero simboleggiato dalle grandi costruzioni come la Trump Tower di New York o il Trump Hotel di Las Vegas.

Politicamente flessibile e con un passato di militanza nel nel Partito Riformista e nel Partito Democratico, dal 2008 ha iniziato un percorso di avvicinamento al Partito Repubblicano che culmina nella nomination a candidato presidente per le elezioni del 2016 nelle quali sconfigge l’avversaria democratica Hilary Clinton e diviene il 45° inquilino della Casa Bianca. È il più ricco presidente della storia repubblicana, il più anziano al momento dell’elezione e il primo a non aver mai ricoperto cariche pubbliche in precedenza.

Il programma di Donald Trump resta fortemente ancorato a destra, sia per la sua forte retorica contro le tasse sia per la politica estera incentrata su una nuova contrapposizione con la Cina, forse nell’intento di restaurare un clima da guerra fredda che storicamente rafforza la posizione del commander in chief.

Nel corso della sua Presidenza, il tycoon ha dimostrato di non credere al multilateralismo, e per questo ha preferito ritirare gli Stati Uniti da una serie di accordi internazionali (dalla COP21 all’OMS). La linea del disimpegno perseguita dal repubblicano arriva addirittura a contestare la NATO, l’Alleanza atlantica di mutua difesa che, ovviamente, senza Washington resterebbe un guscio vuoto. Nel corso della campagna elettorale ha ripetutamente sostenuto di voler ritirare le truppe americane dall’Afghanistan e dalla Germania. La politica estera di Trump resta molto aggressiva nei confronti della Cina, che è oggettivamente un interlocutore assai inquietante per la potenza americana. L’intenzione del candidato repubblicano è interrompere per sempre la dipendenza dalla Cina, anche a colpi di dazi e sussidi per le imprese che abbandoneranno le sedi nel Celeste Impero per rientrare negli States. Molto criticata la posizione trumpiana su Israele, vista la sua scelta di abbandonare la politica dei Due Stati (Israele e Palestina) e appoggiare implicitamente le rivendicazioni israeliane su Gerusalemme, dove ha spostato l’ambasciata.

Resta controversa la sua posizione nei confronti della spirale di violenze che ha squassato il Paese negli ultimi mesi. Trump ha chiesto ai suprematisti bianchi di mettersi in standby nel corso dell’unico dibattito presidenziale che si è tenuto finora: una scelta che gli è costata una vera e propria pioggia di contestazioni, ma che non ha ritrattato. Mike Pence, il suo vicepresidente, ha ricordato che il tycoon ha condannato il Ku Klux Klan, ma non si fermano le polemiche attorno alla Casa Bianca. Il Presidente ha infatti spesso condannato i sindaci e i governatori delle città al centro delle violenze, sostenendo che fossero solo città blu (ovverosia democratiche). Inoltre sostiene esplicitamente la difesa del Secondo Emendamento, cioè del diritto a possedere un’arma (col plauso della NRA, la lobby dei produttori d’armi): tra le sue proposte figurano il rafforzamento delle leggi in vigore e l’abrogazione di alcuni divieti d’acquisto, in particolare per i militari (tra i quali miete consensi maggiori che in altri gruppi). La politica trumpiana si basa sul binomio Law and Order, legge e ordine, come a lui piace spesso ripetere: per questo propone nuove assunzioni in polizia, di cui vuole ampliare i fondi federali, e un inasprimento di pene per ogni aggressione ai pubblici ufficiali. Dichiarata la sua lotta agli ANTIFA, movimento che taccia di estremismo di sinistra.

Secondo Trump la ripresa tornerà rapidamente ai tassi di crescita pre-COVID, e anzi si spinge a dichiarare: «L’economia crescerà come mai prima d’ora». Addirittura, nella sua agenda Fighting for You, fissa due obiettivi molto ambiziosi: 10 milioni di nuovi posti di lavoro, a cui si aggiunge un altro milione nelle piccole imprese. Nell’ottica di consolidare il primato economico americano, il Presidente si propone di vincere la sfida del 5G (anche qui si ripete l’ottica di contrasto anticinese). Ciliegina sulla torta, il candidato repubblicano promette che porrà fine al bullismo burocratico del Governo nei confronti delle piccole imprese.

Benché Trump sia sempre stato un feroce critico dell’ObamaCare, nel suo programma si trovano tracce di maggior intervento pubblico in campo sanitario. Anche il tycoon ormai propone di tagliare i prezzi dei farmaci e di ridurre i premi assicurativi per l’assistenza sanitaria. E sebbene non ne proponga l’estensione, dichiara di voler «proteggere» l’assistenza sociale e Medicare, il programma d’assistenza sanitaria pubblica per gli anziani. Ambiziosissimo il suo obiettivo di arrivare al vaccino entro l’anno. Il desiderio del Presidente era ottenerne la commercializzazione entro la data delle elezioni, ma è difficile ormai che si riesca ad arrivare a tanto. Così l’inquilino della Casa Bianca ha optato per promettere il ritorno alla normalità per il 2021, che intende raggiungere senza lockdown, checché ne dicano gli scienziati e in particolare Anthony Fauci, il numero uno della task force anti-COVID. Fauci ha spesso criticato apertamente le scelte politiche del Presidente ma Trump non l’ha mai licenziato: pubblicamente il commander-in-chief ha dichiarato che l’avrebbe fatto molto volentieri, ma ha evitato per ragioni d’opportunità.

 

Continua a seguire il nostro racconto sulle elezioni americane.

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