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Celibato, una solitudine che sa di libertà

“Il Celibato non è un dogma della Chiesa, può essere discusso perché è una tradizione ecclesiastica.” Queste parole del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin sono una doverosa premessa a qualsiasi riflessione sul tema del celibato ecclesiastico di cui parecchio si sta discutendo in questi ultimi giorni a seguito delle aperture dei vescovi durante il recente sinodo, aperture che prevedibilmente sono state accolte con poco entusiasmo dagli ambienti (venga concesso a titolo esemplificativo l’uso di questa etichetta) più tradizionalisti. Simile, ma più interessante, è invece la reazione di quelli che giornalisticamente vengono chiamati “atei devoti”, ossia quella categoria di intellettuali atei che riconoscono però un ruolo centrale al cristianesimo, e particolarmente al cattolicesimo, nella cultura e nella storia dell’Occidente. Questa posizione viene descritta benissimo da Oriana Fallaci, che ne La forza della ragione scrive che il cristianesimo pur spogliato del suo contenuto metafisico rimane “davvero una irresistibile provocazione. Una clamorosa scommessa che l’uomo fa con sé stesso.”

L’eventuale fine del celibato non sarebbe un tradimento della dottrina perché di dottrina non si tratta ma, semplicemente, l’abbandono di una consuetudine in favore di una missione, ossia l’evangelizzazione dei popoli e l’amministrazione dei sacramenti, una funzione rispetto ad uno scopo. Del resto già ora sono esonerati da questo voto gli appartenenti ad alcuni riti orientali.
Detto ciò non possiamo negare che con il celibato se ne andrebbe un enorme valore simbolico e una straordinaria dimensione esistenziale.
La solitudine del prete è un must della nostra cultura, che continua ad affascinare anche nelle sue espressioni più pop, basti solo pensare al successo della serie televisiva The young Pope.
Il fatto è che il celibato è l’emblema di quel rapporto assoluto con l’assoluto che teorizzava Kierkegaard, autore protestante che non a caso nutriva una grande stima nei confronti di questo istituto tipicamente cattolico.
I preti, come tutti gli uomini, amano, ma di un amore che non è quello di cui tutti siamo capaci, quello in cui ci si dirige sull’oggetto amato desiderando di farlo proprio ed essere riamati. Al prete fin dal primo momento manca la prospettiva di una risposta tangibile ed immediata, ma sa di andare incontro ad un rapporto in cui alla fervente passione dell’amante, il sacerdote, corrisponde l’apparente silenzio di Dio, l’Amato; è questa una dimensione che nell’escludere ogni possibile interesse mostra che il celibato non è una dimensione di prigionia ma di radicale libertà. È un amore che mai potrà essere soddisfatto perché si dirige verso un’alteritá così totale da non poter mai essere inglobata ed è per questo un amore vero e veramente capace di amare, è una delle clamorose scommesse e delle irresistibili provocazioni che impressionavano l’atea Fallaci. È la peculiarità del sacerdote Romano, ciò che ne costituisce un unicum all’interno della moderna società occidentale.
La Chiesa deve garantire che i suoi fedeli possano accedere ai sacramenti ed è giusto che superi ogni ostacolo che glielo impedisca, ma permetteteci di dire che noi ancora subiamo il fascino dei preti che testimoniano al mondo la loro solitudine e la loro libertà.